RESTITUIRE TRIESTE AL FUTURO -

AUTONOMI DALL' ITALIA MA CONNESSI CON IL MONDO - RESTITUIRE TRIESTE ALLA MITTELEUROPA - RESTITUIRE TRIESTE AL SUO FUTURO: CENTRALE IN EUROPA INVECE CHE PERIFERICA IN ITALIA -

sabato 5 novembre 2016

MIRACOLO A TRIESTE: SUL PICCOLO SI LEGGE CHE TRIESTE DEVE TUTTO ALL' AUSTRIA ! - IL PAGINONE CONSERVATO IN UNA TECA A S. GIUSTO A DIMOSTRAZIONE CHE I MIRACOLI SONO RARISSIMI MA ESISTONO -


ANCHE UN OROLOGIO GUASTO SEGNA L' ORA GIUSTA DUE VOLTE AL GIORNO !
Anche Il Piccolo deve prendere atto che Trieste deve tutto all' Austria, anzi all' Impero.
Conserveremo come una reliquia il miracoloso paginone che dimostra che la Verità, seppure dopo cent' anni, riesce ogni tanto a farsi largo a gomitate anche sul fogliaccio nazionalista.
Probabilmente è un dono di S. Giusto, martire triestino assassinato dai Romani, in occasione della sua festa celebrata l' altro ieri.




COSE TURCHE - COSA SUCCEDE IN TURCHIA ? E CON GLI ALTRI STATI ? - UN PAESE FONDAMENTALE PER IL PORTO DI TRIESTE - UN ARTICOLO DI "LIMES" IN ESCLUSIVA PER I NOSTRI LETTORI


Come è noto il Porto Franco Internazionale di Trieste è il capolinea dell' "Autostrada del Mare" tra Turchia ed Europa Centrale.
Da noi arrivano i traghetti turchi con i TIR ed è un traffico importante che utilizza le prerogative uniche del Punto Franco.
Per questi motivi ciò che avviene in Turchia, e nei rapporti fra la Turchia e gli altri Paesi, in questi tempi di grandi cambiamenti successivi al fallito "colpo di stato" interessa moltissimo la nostra città.

Offriamo in esclusiva ai nostri lettori l' editoriale dell' ultimo numero della rivista di geopolitica Limes interamente dedicato alla Turchia e ai recenti sviluppi interni ed internazionali.

La Turchia secondo Erdoğan



1. LA TURCHIA FU IMPERO. DUNQUE NON CESSERÀ MAI DI PENSARSI tale. Ma il sogno neocesariano, esaltato dal surplus ideologico del suo credo, che si vuole universale, e dal culto della sua razza, che si pretende guerriera, resterà probabilmente tale. Per carenza di risorse, non di volontà.
Qui sta il dramma geopolitico di un popolo dall’identità incompiuta, tuttora sofferente per l’umiliazione subìta nel cataclisma della prima guerra mondiale, sancita dai trattati ineguali che ne seguirono. Per sopravvivere, i turchi dovettero smettere i logori ma gloriosi panni ottomani. E inventarsi nazione. Trauma identitario: in epoca imperiale, coloro che comunemente chiamiamo turchi non amavano definirsi tali. Erano gli europei a bollarli così, imponendo un marchio di permanente successo, misto di disprezzo e paura, occidentale senso di superiorità e islamofobia. Peggio: per ogni fiero ottomano, sul cui ceppo turanico, germogliato nelle steppe centroasiatiche, si erano innestate nei secoli fioriture persiane, bizantine, levantine, arabo-islamiche, «turco» era sinonimo di «tonto», con specifico riferimento agli anatolici rurali, miseri analfabeti. Il motto stesso della nuova nazione, «felice colui che può dirsi turco», trasudava ironia.
Allo Stato turco battezzato nel 1923 restava uno spazio irrisorio rispetto all’apogeo imperiale, quando i tricontinentali domini ottomani si estendevano almeno nominalmente dall’Atlantico nordafricano al Volga, dalle marche austro-ungariche alla Penisola Arabica, fino al Corno d’Africa. Torso amputato delle sue plurisecolari articolazioni extra-anatoliche, avendo perso fra Settecento e incipiente Novecento prima l’egemonia sul Mar Nero, poi i Balcani, infine le Arabie. Arroccato sugli Stretti e nel contiguo acrocoro orientale, non proprio terra di elezione. Attardato a emulare modelli politici e amministrativi europei proprio mentre l’Europa cessava di torreggiare sul mondo, poi che i suoi miraggi positivisti erano evaporati sui campi di battaglia della Grande guerra. Sicché Abdullah Cevdet, fra i più brillanti ideologi dei Giovani Turchi, concedeva: «Non c’è altra civiltà. Civiltà significa civiltà europea e dev’essere importata con le sue rose e le sue spine»1. A esporre un complesso d’inferiorità talmente vivo che ancora oggi nella sinossi ufficiale della politica estera turca è stabilito: «La Turchia è determinata a diventare membro a pieno titolo dell’Unione Europea come parte del suo sforzo bicentenario di raggiungere il più alto livello della civiltà contemporanea» (tondo nostro, n.d.r)2.
Lo sguardo fisso al faro europeo, soprattutto francese ma anche italiano, tedesco, svizzero, induceva la nuova classe dirigente a promuovere una formidabile pedagogia nazionale. Quasi rifondazione antropologica. Fondata sullo sprezzo della recente decadenza ottomana, sull’oblio della trascorsa grandezza imperiale e sulla pulsione rivoluzionaria volta a formare i cittadini della repubblica laica in ambito culturale musulmano. Con istituzioni e prassi che un giorno avrebbero dovuto evolvere il bruco post-ottomano nella farfalla di una compiuta democrazia europea.
Questo il grandioso progetto di Mustafa Kemal, poi Atatürk. Padre della patria. Ateo, ma venerato fondatore di una religione laica. Macedone, ma inventore della Repubblica Turca. Architetto e guida dello Stato nazionale in costruzione. Presidente di un’assai peculiare repubblica, non sultano/califfo di un insieme sovranazionale già declinato in una miriade di comunità religiose, etniche e culturali, cui la Sublime Porta concedeva briglie più o meno sciolte. Atatürk è tuttora oggetto di culto, specie da parte di ciò che resta della laica élite militare. Omaggio peraltro ossificato, sterile. Sicché un fido consigliere di Ahmet Davutoğlu, stratega principe dell’islamismo politico oggi dominante, caduto in disgrazia dopo aver invano cercato da ministro degli Esteri e poi da capo del governo di realizzare il sogno alchemico di ogni accademico – trasmutare le proprie teorie in realtà effettuale – confida: «Dobbiamo accompagnare il signor Atatürk alla tomba» 3.
Impresa cui si sta applicando il padre padrone della Repubblica Turca, Recep Tayyip Erdoğan, che si vorrebbe proprio quel che Atatürk rifiutava di essere: sultano e califfo. Il tempo stringe, visto che l’orizzonte neo-sultanale dovrebbe consolidarsi entro il 2023, centenario della fondazione della repubblica. Da virare nel frattempo in regime presidenziale, formalizzando lo stato di fatto: a capo della repubblica c’è un presidente sultano. Ad ogni modo, nella Turchia di Erdoğan – come nella Russia di Putin – il potere non deriva dalla carica, ma dalla persona che la ricopre: lui stesso. La sovranità in carne e ossa.
Sotto il profilo geopolitico, questa repubblica ad personam è revisionista. Destino che sembra accomunare gli Stati che nascono per disintegrazione dall’impero (valga anche qui l’analogia con la Federazione Russa): la Repubblica Turca non può accettare lo status quo perché il paragone con il passato imperiale riflette l’insopportabile chirurgia territoriale cui fu sottoposta dai nemici interni ed esterni che secondo Erdoğan da sempre complottano contro la sua grandezza: terroristi curdi e militari felloni, sette parareligiose e massonerie locali protette da padrini d’Oltremare, infidi arabi, perfidi ebrei e occidentali infedeli, imperi rivali, superpotenze alleate ma non amiche.
Erdoğan non può accettare per la Turchia il formato residuale, ritagliato dalla sconfitta dell’impero. Non si rassegna a che la sua terra sia ridotta a nazione anatolica, più minime appendici. Abito troppo stretto, quasi soffocante. Ne pretende uno nuovo, di taglia congrua alle proprie ambizioni, che non possono spiegarsi solo quale rivincita sulle modeste origini – peraltro avvolte da un filo di mistero, visto che un tempo si definiva georgiano (alcuni lo vorrebbero armeno), per professarsi due anni fa di ceppo turco4. Erdoğan immagina che nell’altro mondo dovrà rendere conto della sua geopolitica a Maometto II il Conquistatore (Fatih), eversore nel 1453 della Costantinopoli bizantina, e a Solimano I il Magnifico ovvero il Legislatore (Kanuni), incarnazione dell’apogeo ottomano. Così si rivolge il 5 maggio 2013 a un raduno di militanti del suo Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp): «Noi non siamo come altri Stati, altre nazioni. Noi non siamo un popolo o uno Stato che resterà quieto a vegliare in nome degli interessi, della congiuntura politica o per mantenere la stabilità. Quando compariremo alla presenza del Sultano del Mondo, Fatih il Conquistatore, vorremo apparirgli con la testa ben alta. Quando compariremo alla presenza del Sultano del Mondo, Solimano il Magnifico, vorremo apparire di fronte a tale presenza spirituale con la testa ben alta» 5.
Proiezioni di un megalomane? Visti popolarità e potere di Erdoğan, considerati peso e peculiare collocazione strategica del suo paese, questo revisionismo merita di essere indagato. A partire dal soggetto che dovrebbe guidarlo: lo Stato turco, o meglio il sultanato del presidente. Per poi definirne l’oggetto: quale impero? Ed esaminarne insieme il predicato: le risorse mobilitate in rapporto alle resistenze da eliminare onde conseguire l’obiettivo.


2. In Turchia il potere supremo risiede nello Stato. Strumento non solo di gestione ma di trasformazione dell’ambiente interno (modernizzazione socio-culturale, sviluppo economico, orientamento politico-ideologico) ed esterno (revisionismo geopolitico). Da Atatürk a Erdoğan tale principio è costante. Le strutture formali e informali della società civile – potentati economici e finanziari, lobby d’ogni colore, gruppi etnici o religiosi, movimenti politici e/o ambientalisti, media – non possono pareggiarne l’influenza. Tanta concentrazione del potere deriva dalla convinzione che lasciata a se stessa la composita famiglia che convive nell’ambito della repubblica – ovvero le diverse comunità etno-culturali che la (de)compongono – finisca per disintegrarsi sotto la pressione delle forze centrifughe indigene e allogene. Lo Stato serve da autorevole/autoritario riduttore della complessità. Il sistema politico modellato su schemi occidentali è mezzo, non scopo: «La democrazia è un tram. Va avanti fino a quando vogliamo noi, poi scendiamo», spiega Erdoğan 6. Sicché le istituzioni sono severamente accentrate. Su tutto e tutti svetta la figura del capo supremo Recep Tayyip Erdoğan, già primo ministro (2003-14) e ora presidente, di gran lunga il più popolare leader della storia repubblicana dopo Atatürk (lui correggerebbe: prima di Atatürk). Eppure, il 15 luglio scorso quest’uomo che gli adulatori trattano da profeta e al quale gli intervistatori locali rivolgono domande invocando «il vostro elevato permesso» ha rischiato di cadere nella polvere, causa un pur maldestro, abborracciato tentativo di golpe. Quella data segna uno spartiacque nella storia dello Stato turco. Ci fu un prima, ci sarà un dopo-15 luglio.
Alla vigilia del fallito putsch, la distribuzione del potere in Turchia era grosso modo la seguente. Al vertice il presidente e capo dell’Akp, con una solida maggioranza parlamentare, non però sufficiente a garantirgli l’agognato cambio di regime in senso neogollista. Intorno a lui, un partito normalizzato, soggiogato dal suo carisma. E opposizioni apparentemente condannate a restare tali causa la modestia delle rispettive leadership e la prevalenza elettorale degli islamisti nell’Anatolia profonda, nella capitale Ankara, perfino nella stessa İstanbul (carta a colori 1). Quanto ai movimenti di protesta contro la deriva autoritaria di Erdoğan, culminati nel maggio 2013 nella rivolta di Gezi Parkı – sopravvalutata dagli osservatori occidentali e presto stroncata dal pugno di ferro del governo (carta a colori 2) – erano ormai circoscritti e demoralizzati, malgrado la testimonianza personale di alcuni intellettuali, tra cui autori di fama globale come Orhan Pamuk o Elif Șafak. Quanto ai giornalisti eterodossi, salvo eccezioni, la scelta era tra basso profilo, conversione alla causa presidenziale o dimissioni – quando non la prigione.
La guerriglia curda, minaccia endemica all’unità nazionale alimentata da avversari e alleati stabili (americani) o intermittenti (israeliani), non era invece domata. Né i negoziati segreti fra Erdoğan e Abdullah Öcalan, il capo del Pkk, suo prigioniero nell’isola di İmralı, avevano prodotto la pacificazione agognata. La spina curda nel fianco turco, insieme agli attentati terroristici dello Stato Islamico o di altri jihadisti, impediva ad Ankara il pieno controllo del panorama domestico. Di conseguenza ne condizionava la proiezione esterna.
Assai più incerta la partita nello Stato profondo (derin devlet), coacervo in costante competizione di poteri più o meno forti, talvolta informali, financo invisibili – dai militari alle mafie, dall’intelligence alla polizia e alla magistratura – autolegittimato dalla necessità di proteggere la repubblica dalle derive democratiche, dagli eccessi liberaleggianti e dalle cabale internazionali che ne minaccerebbero l’esistenza. Qui la posta in gioco principale era il controllo delle Forze armate, sperimentato bastione dell’eredità kemalista (ovvero dei privilegi della casta militare), che Erdoğan si illudeva di aver perfezionato negli anni. L’interminabile negoziato con l’Unione Europea, mirabile esercizio di reciproche ipocrisie, serviva alla leadership islamista per legittimare il ridimensionamento della supervisione militare sulla gestione politica, consuetudine incorporata nella costituzione materiale della repubblica ed esaltata in tempo di guerra fredda contro presunte infiltrazioni sovietico/comuniste. A generali e ammiragli il potere civile esibiva la necessità di adeguarsi agli standard europei: i militari stanno in caserma e ne escono solo per combattere l’eventuale aggressore, non per rovesciare il proprio governo, come già accaduto quattro volte nella Turchia moderna.
Nello Stato profondo si era installata una colossale piovra a due facce: l’associazione islamista denominata Hizmet (Servizio), guidata da un carismatico imam oggi quasi ottantenne, Fethullah Gülen, dal 1999 autoesiliato in un remoto rifugio tra i Monti Pocono, in Pennsylvania. Organizzazione esteriormente dedita all’educazione dei giovani e alla formazione delle élite, diffusa in 170 paesi. A partire dagli Stati Uniti, dove tuttora gestisce 140 scuole e gode di potenti appoggi, compreso quello del clan Clinton e di alcuni apparati, Cia in testa, per i quali fino al 15 luglio era un’utile leva d’influenza e di ricatto nelle stanze del potere di Ankara. Di fatto impegnata a infiltrare segretamente lo Stato turco per minare il dominio dei militari e degli altri apparati in mano ai secolaristi, dalla magistratura alla polizia. Abbeverata a un’ideologia esoterica – miscela di nazionalismo arabofobo turco e interpretazione scientista dell’islam, anticomunismo e antisemitismo – distillata dall’insegnamento di un teologo sufi curdo, Said Nursî (1877-1960). Con l’aggiunta di una vena antiamericana, repressa in omaggio al massimo paese ospitante.
Eppure, Gülen era capace di attrarre intellettuali e giornalisti liberal, che usavano i media da lui finanziati per criticare, spesso con buoni argomenti, gli apparati dello Stato turco. I quali non vedevano o non volevano vedere l’altra faccia del gulenismo. A tratteggiarla basti un sermone di fine anni Novanta, nel quale Gülen incitava i suoi a installarsi in incognito nello Stato profondo, fino a raggiungere la massa critica necessaria a impossessarsene: «Dovete muovervi nelle vene del sistema senza che nessuno rilevi la vostra esistenza, fino a che avrete raggiunto ogni centro di potere. (…) Dovete aspettare fino a quel momento, quando avrete preso tutto il potere statale, quando avrete portato dalla vostra parte tutta la potenza delle istituzioni costituzionali turche. (…) Fino ad allora ogni passo compiuto sarebbe prematuro, come rompere un uovo senza attendere i quaranta giorni pieni della cova» 7.
Così Gülen ha speso il suo talento per formare la futura «generazione aurea», quella che avrebbe dovuto guidare la Turchia finalmente liberata dai lacci kemalisti e riportata all’imperiale età dell’oro di cinque secoli fa. L’imam ha quindi costruito una struttura segreta ipergerarchica, disposta in cerchi concentrici, con al vertice lui stesso, lo hocaefendi (rispettato maestro). Per i suoi adoratori, Gülen è il Mahdī, il «ben guidato» che stando a certa escatologia islamica verrà alla fine dei tempi per sconfiggere il falso Messia e riscattare i musulmani, anticipando il secondo avvento del profeta Gesù. Stando ai militari turchi che lo hanno sempre detestato è invece «il Frankenstein americano», pupazzo dell’intelligence statunitense installato quale limitatore di potenza nel cuore dell’esercito «alleato»8.
L’obiettivo finale di Gülen era l’espropriazione dello Stato profondo kemalista, da sostituire con il proprio. Disegno compatibile con lo scenario strategico di Erdoãan – che pure in Occidente era dai più considerato, fino alla repressione di Gezi Parkı, un curioso (e blasfemo) «democristiano islamico». Il capo dell’Akp non disponeva però di quadri sofisticati come quelli addestrati nelle scuole guleniste, sicché per islamizzare le nervature burocratiche dello Stato doveva attingere al capitale umano dell’imam transfuga. Per lunghi anni i due progetti, il gulenista e l’erdoganiano, hanno marciato paralleli. Fino al 2012 l’infiltrazione gulenista nello Stato profondo tradizionalmente monopolizzato dai laici – termine che in Turchia non indica la separazione fra Stato e religione, ma l’imperativo per cui la religione deve essere sorvegliata dallo Stato – era in parte concordata con Erdoğan. In questa luce si intendono meglio le inchieste della polizia e della magistratura orientata dai gulenisti – risalenti all’inizio dello scorso decennio e poi rivelatesi fondate su documenti falsi – su presunti golpe (Ergenekon e Balyoz) architettati nelle alte sfere delle Forze armate. Mentre anche la buona società europea plaudiva ai procuratori coraggiosi, l’allora primo ministro si compiaceva dell’incarcerazione di centinaia fra ufficiali, intellettuali, burocrati e giornalisti. Intanto i quadri gulenisti si facevano largo nel vuoto aperto dalla (loro) magistratura per rimpiazzare le teste cadute. Lo Stato profondo stava diventando gulenista. A scapito non solo dei kemalisti ma anche dello stesso Akp.
Il duetto a distanza Gülen-Erdoğan è continuato fino a che il capo della Turchia ha cominciato a sospettare che il predicatore dei Monti Pocono intendesse fargli le scarpe. Due leader per lo stesso progetto sono troppi. La svolta è cominciata nel febbraio 2012, quando un procuratore di obbedienza gulenista ha minacciato di arrestare il capo dei servizi segreti turchi, Hakan Fidan, al quale Erdoğan aveva affidato i negoziati con Öcalan. Chiaro segno che a Washington non volevano che andassero a buon fine. A convincere definitivamente Erdoğan che Gülen giocava per sé e contro di lui è stata nel dicembre 2013 la pubblicazione da parte dei media gulenisti di documenti che rivelavano i non commendevoli traffici della famiglia del capo. Per culminare nel febbraio 2014 con la diffusione via YouTube di una conversazione telefonica fra Erdoğan e suo figlio Bilal su come nascondere denari sporchi.
Il campo islamista era ormai percorso da una sorda guerra civile. Erdoãan scatenava l’epurazione contro i referenti gulenisti nello Stato profondo. Specie nella polizia, feudo dell’imam traditore. La resa totale dei conti era prevista per l’agosto scorso, con la purga definitiva in ambito militare.
La sera del 15 luglio scatta il golpe che dovrebbe prevenire lo smantellamento della rete gulenista e che invece ne accelera la fine. Improvvisazione, carenza di una catena di comando e soprattutto di sostegno popolare segnano in poche ore la catastrofe dei golpisti, simboleggiata dall’umiliante arresto di soldati ribelli da parte di poliziotti fedeli al governo. Di più: questo «dono di Dio» (parola di Erdoğan) legittima il controgolpe del presidente, che profitta dell’immediato clima di unità nazionale per eradicare non solo lo Stato profondo affiliato a Gülen – cui viene attribuita la totale responsabilità del fallito pronunciamento – ma centomila fra avversari veri o solo sospetti. Certo non tutti affiliati alla Fetö (Fethullahçı Terör Örgütü), acronimo di conio erdoganiano volto a stigmatizzare la colpa della cricca gulenista, marchiata d’infamia terrorista. Nelle settimane seguenti sono licenziati e/o arrestati ufficiali, poliziotti, giornalisti, insegnanti, intellettuali, giudici, procuratori. Le Forze armate, umiliate dalla polizia rivelatasi fedele alla repubblica, perdono rango, prestigio, morale. E quindi, almeno a breve, soffrono in efficienza, visto che all’appello mancano metà dei generali e degli ammiragli, l’Aeronautica conta più jet che piloti, l’infida gendarmeria è sottratta alla Difesa e incardinata all’Interno, mentre la polizia riceve in premio armi pesanti. Non contento, Erdoğan vorrebbe dagli Stati Uniti via estradizione la testa di Gülen. Non l’avrà, anche perché a suo carico mancano le prove.
Al golpe sanguinoso – 241 morti e 2.194 feriti, recita il bollettino governativo – segue dunque un micidiale controgolpe «a secco». In due movimenti, lo Stato profondo originariamente kemalista passa dall’incipiente egemonia gulenista al dominio erdoganiano, che sarà forse sancito dalla transizione al presidenzialismo per via referendaria. Almeno per ora, la Turchia è retta con piglio semidittatoriale da un leader mai così popolare. Ma lo Stato, deputato a scongiurare l’implosione della nazione, saprà rispondere ai comandi del presidente sultano? O si svelerà troppo infragilito, frammentato? E soprattutto, resa privata la res publica, a quale impresa geopolitica intende ora volgerla Erdoğan?


3. La mappa mentale che muove la geopolitica di Erdoğan è il Patto nazionale (Misak-ı Millî) (carta 1). Varato il 2 febbraio 1920 dall’ultimo parlamento ottomano, elevato poi da Atatürk a paradigma territoriale dell’erigenda Turchia indipendente, quel progetto restò tale in seguito alla reazione delle potenze vincitrici – Gran Bretagna, Francia, Italia – che codificarono lo smembramento dell’impero ottomano nel devastante Trattato di Sèvres (20 agosto 1920). Pace cartaginese all’origine delle teorie, tuttora diffuse in Turchia, sul complotto internazionale che minaccerebbe in permanenza la patria («sindrome di Sèvres»). Tragedia solo in parte edulcorata, dopo la guerra di indipendenza, dal Trattato di Losanna (24 luglio 1923), deputato a ratificare le frontiere della Repubblica Turca.
Il 29 settembre scorso Erdoğan si è scagliato contro il compromesso di Losanna, citando in particolare la cessione di isole turche alla Grecia. Non contento, ha attaccato «chi ci ha ingannato presentando quel trattato come una vittoria»9. Leggi: Atatürk. In altri tempi, Erdoğan avrebbe pagato con la galera l’offesa al padre della nazione. Oggi il presidente sultano può serenamente rigettare la costituzione geopolitica dello Stato turco.
Il rifiuto di Losanna non sorprende considerando la retorica spaziale erdoganiana. In essa si fondono tre vettori, su altrettante scale. La panislamica o califfale, per cui la Turchia è il centro dell’ecumene musulmana; la panturca o etnica, che spinge l’irradiamento nazionale fin verso le originarie steppe mongoliche e nel Turkestan orientale-Xinjiang (carta 2); la neo-ottomana, a recuperare non solo mentalmente terre e mari lungo l’asse balcanico, a nord-ovest, e quello arabico, verso sud-est. Mentre le prime due pertengono alla dimensione onirica del pensiero erdoganiano, la terza vorrebbe essere concreta. A illustrarla vigeva un tempo la formula «zero problemi con tutti i vicini», distillata dall’ex stratega principe del capo, Ahmet Davutoğlu. Letta in controluce, quella sfortunata frase – oggi la Turchia ha molti problemi con tutti i vicini – suonava «nessun problema con noi stessi». I «vicini» erano infatti gli occupanti abusivi dello spazio imperiale sottratto a Losanna. Quella formula apparentemente banale era la descrizione esoterica, ma comprensibile agli iniziati, della restaurazione imperiale. Davutoğlu dixit: «Non è sbagliato affermare che stiamo tentando di stabilire una Pax Ottomana»10. Poco tempo dopo, il disastroso tentativo di Erdoğan di intestarsi le «primavere arabe» giocando la carta degli affini Fratelli musulmani e il conseguente avventurismo in Siria, dove Ankara aveva puntato sul rapido rovesciamento di Baššār al-Asad tramite ribelli poco affidabili, distrussero tesi e carriera politica di Davutoğlu, sacrificato sull’altare del suo mentore. Negli ultimi mesi, sullo slancio del golpe fallito e nella consapevolezza che il suo prestigio interno molto deve al fascino delle sue proiezioni geopolitiche, Erdoğan sta provando a recuperare il terreno perduto. Perché l’orizzonte neo-ottomano resta ben fermo nella visione sua e di gran parte dei suoi connazionali, non solo elettori dell’Akp.
Riprendiamo in mano il Patto nazionale. Notiamo che questa Grande Turchia – buona per Atatürk, piccola per Erdoğan – oltre ad annettersi molte isole dell’Egeo attualmente greche, spicchi balcanici e avamposti caucasici, ricomprende a sud-est il Kurdistan iracheno e quello siriano. Osserviamo che nella mappa una linea ideale congiunge tre città care all’oleografia neo-ottomana: Aleppo, Mosul e Kirkūk. Qui oggi una confusa mischia coinvolge potenze regionali ed esterne, direttamente o attraverso i loro agenti locali (carte a colori 3 e 4). A unirle la retorica della «lotta al terrorismo» – ognuno bolla così il suo nemico, in specie lo Stato Islamico, mostro provvidenziale utile a giustificare ogni intervento – a dividerle tutto il resto. Nella certezza che se e quando l’improbabile «califfato» sarà battuto, ci si azzannerà per la spartizione delle spoglie siro-irachene (carta a colori 5). La rissa per il bottino è già in corso attorno e dentro le tre città-simbolo. Erdoğan reclama il suo diritto a parteciparvi. Da padrone di casa.
In questa chiave si intendono l’Operazione Scudo dell’Eufrate, ovvero la penetrazione in Siria il 24 agosto, e lo spiegamento di un contingente turco a Ba‘šīqa, presso Mosul, pegno dei diritti storici di Ankara sull’omonimo vilayet, non spontaneamente ceduto nel 1926 all’Iraq sotto mandato britannico. Due sortite strategiche coordinate. Lo Scudo dell’Eufrate, con relativa occupazione della cittadina di Ğarābulus, serve non tanto a colpire lo Stato Islamico quanto a impedire che le locali milizie curde (Ypg), appoggiate dagli Stati Uniti, varchino il fiume verso ovest per formare un loro staterello nel Nord della Siria (Rojava). Salvo poi connettersi ad ovest al Pkk operante nel Sud-Est dell’Anatolia turca, e ad est – in caso di improbabile sintonia pancurda – con il Kurdistan iracheno, centrato su Arbīl (carta a colori 6). L’obiettivo tattico delle Forze armate turche è stabilire una zona cuscinetto di circa 5 mila chilometri quadrati nel Nord della Siria, in attesa di determinare il futuro di ciò che resterà di Aleppo.
L’altro braccio dell’espansione turca è in Iraq. Segue la medesima logica: spiegamento avanzato di un contingente, da rafforzare e impiegare nella battaglia strategica, che qui verte su Mosul. Ancora una volta, lo Stato Islamico, che conquistò la grande città sul Tigri nell’estate 2014 quasi senza sparare un colpo, è lo specchietto per le allodole. Nell’assai eterogenea coalizione – curiosa «squadra» di nemici giurati – che a metà ottobre ha avviato l’avanzata su Mosul si contano milizie sciite mascherate da esercito iracheno (o non mascherate e di obbedienza iraniana), milizie locali arabo-sunnite, turcomanni sciiti in fiera disputa con i confratelli sunniti, peshmerga curdi, «consiglieri», addestratori, forze speciali e aerei americani, ma anche francesi e inglesi sulle orme di nonni e bisnonni, oltre ad immancabili mercenari. C’è perfino, a pochi chilometri in linea d’aria dall’epicentro dello scontro, un contingente italiano (fino a cinquecento uomini) a protezione della diga di Mosul, con tanto di droni da ricognizione. Come non capire la frustrazione di Erdoğan, inizialmente lasciato fuori della porta? Sicché alla vigilia dell’attacco il presidente si sfogava contro il premier iracheno Ḥaydar al-‘Ibādī che pretendeva lo sgombero della base di Ba‘šīqa: «Non sei al mio livello»11. E tuonava: «È impossibile per noi stare fuori da Mosul perché lì c’è la nostra storia»12. Aggiungeva per chiarezza: «I gentili signori sono pregati di leggere il Misak-ı Millî per capire che cosa quel luogo significhi per noi»13. Conclusione: «Dicono che la Turchia non debba entrare a Mosul. Suvvia! Come sarebbe che io non entro? Ho un confine di 350 chilometri con l’Iraq e sono sotto minaccia da quel confine»14. Detto fatto: appena scattata l’offensiva su Mosul i turchi vi si sono aggregati con bombardamenti, incursioni di forze speciali e di milizie reclutate sul posto.
Le operazioni turche in Siria e in Iraq derivano dalla coscienza che quei due Stati non esistono né esisteranno più. E che è scattata la corsa ad accaparrarsene i bocconi più profumati, specie nelle aree di salienza strategica, quale la zona di Aleppo, o energetica, come quelle di Mosul e di Kirkūk. La frammentazione geopolitica degli Stati eretti da Francia e Gran Bretagna sulle rovine della Sublime Porta ne riporta in superficie la matrice ottomana. Sicché i vilayet di Aleppo, Mosul e Kirkūk sono visti da Ankara come la Crimea da Mosca. «Giardini di casa», secondo la delicata definizione del principale consigliere di Erdoğan, İlnur Çevik . Poiché anche curdi, turcomanni, arabi – più o meno rigorosamente divisi fra sciiti e sunniti – e altri gruppi etnici e tribali non intendono abdicare ai loro orti e alle loro case, la battaglia di Mosul, già allargata a Kirkūk e ad altre località irachene dalle diversioni dello Stato Islamico, segna l’avvio di una nuova fase delle guerre mesopotamiche. Destinata a durare, perché nessuna potenza è in grado di tenere insieme o soggiogare tutte le forze e le velleità in campo.
Per Ankara, la soluzione provvisoria è la cantonizzazione dell’Iraq e della Siria settentrionale, secondo malcerte frontiere etno-religiose e tribali, in territori preda di gruppi criminali che vivono delle economie di guerra. Il recupero di parte almeno dei tre vilayet ottomani potrebbe avvenire seguendo il modello Alessandretta/Hatay. Dopo Losanna, il sangiaccato di Alessandretta, nella provincia di Aleppo, rimase parte del mandato francese sulla Siria, malgrado Atatürk lo rivendicasse in quanto «terra turca da quaranta secoli», giacché per lui gli ittiti erano prototurchi16. Sotto l’egida della Società delle Nazioni, nel novembre 1937 la Turchia si accordò con Francia, Gran Bretagna, Olanda e Belgio perché il sangiaccato di Hatay fosse «distinto ma non separato» dalla Siria. Salvo annetterselo il 29 giugno 1939 dopo un non limpidissimo referendum, con conseguente esodo di arabi e armeni dal proprio territorio ancestrale. Cantonizzazione più plebiscito: ricetta invidiabile. Soprattutto, replicabile in altri appezzamenti del «giardino di casa».
Sotto la polvere cova lo scontro con l’Iran, che si erige a protettore del governo iracheno, di forte impronta sciita. Resuscitano i fantasmi dell’antica rivalità fra gli imperi persiano e turco. Ankara è convinta che gli iraniani vogliano stabilizzare un corridoio strategico sciita Herat-Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut. La Repubblica Islamica teme che l’intervento turco possa rimettere in causa la sua egemonia su Baghdad e resuscitare la causa sunnita nella regione, d’intesa con l’Arabia Saudita e i suoi petrosatelliti del Golfo, oltre che con il benevolente appoggio tattico di Israele. Se e quando la sconfitta dello Stato Islamico sarà totale, cadranno le ultime foglie di fico che mascherano le rivalità regionali di fondo. L’alternativa a quel punto sarà fra guerra calda coinvolgente turchi, arabi e persiani, vestita da scontro confessionale sunniti/sciiti, e uno storico compromesso che stabilisca una lunga tregua in un conflitto apparentemente incomponibile.


4. L’avventurismo geopolitico di Erdoğan sarebbe inconcepibile in un mondo retto dalle grandi potenze. Ma il vuoto lasciato tra Levante e Medio Oriente dal collasso dell’Unione Sovietica, prima, dalla sfortunata guerra americana al terrorismo con disastrosa invasione dell’Iraq, poi, infine dalla parziale ritirata di Obama dalla regione, nella speranza di gestirla da remoto attraverso la limitazione reciproca tra gli interessi delle potenze interessate, ha riaperto le partite ibernate dalla guerra fredda.
L’equilibrio della potenza non è mai stato specialità americana. È calligrafia strategica europea, concepita per la competizione fra gli Stati nazionali del Vecchio Continente e perfezionata ai tempi del Congresso di Vienna. Applicarne due secoli dopo una versione improvvisata nell’incandescente fornace mediorientale, in piena entropia geopolitica, è esercizio superiore alle abilità acrobatiche di Washington. Non solo perché sul terreno gli attori sono troppi, ingestibili e spesso opachi. Ma anche in conseguenza della competizione interna agli apparati americani cui è affidata la gestione del balance of power. Più che coordinato equilibrismo, gli attori domestici della geopolitica americana producono un poco gratificante spettacolo di giocoleria circense affidata ad interpreti che seguono schemi diversi, spesso collidenti – Pentagono contro Dipartimento di Stato, Cia contro altre agenzie di intelligence, lobby etniche o politico-economiche in perenne baruffa – incapaci di governare le molte palle lanciate in aria. Caos accentuato dalla sede vacante (il dopo-Obama dura da almeno un anno) e dalla feroce competizione per la presidenza.
Di conseguenza i rapporti tra Ankara e Washington sono in vertiginosa involuzione, anche per effetto della percepita imprevedibilità del leader turco. Il temperamento mercuriale di Erdoğan è palese, così come la centralità del suo ruolo nella definizione della geopolitica turca. Tuttavia, svolte e controsvolte del sultano presidente sono meno umorali di quel che paiono. C’è del metodo in quelle follie. Erdoãan non è pazzo. È molto pragmatico sognatore. Quotidianamente impegnato a coniugare l’alto profilo di statista con i meno elevati affari che pertengono alla privata dimensione di businessman attento al benessere suo e dei suoi cari.
Le relazioni con gli Stati Uniti e con le altre maggiori potenze illustrano l’assai flessibile radicalismo del capo, consapevole che passata la notte del 15 luglio nessuno appare in grado di rovesciarlo. Davanti a sé Erdoãan vede schiudersi un invitante orizzonte di spazio e di tempo che lo stimola a coltivare i progetti più azzardati. Le sue idee devono però passare al vaglio non solo dei rivali regionali di sempre, ma anche di Stati Uniti, Russia e soggetti della residua Unione Europea.
Erdoğan non vuole rompere con gli americani. Intende però sfruttarne le incertezze. Il presidente sultano condivide con la quota prevalente della sua opinione pubblica la convinzione che il fallito golpe del 15 luglio sia da ascrivere alla Cia, che si sarebbe servita della sua testa di turco, Fethullah Gülen. Alcuni, come l’ex capo di Stato maggiore delle Forze armate turche, İlker Başbuğ, sono certi che il tentato colpo di Stato sia stato programmato dall’intelligence americana perché non riuscisse, in modo da indebolire prestigio ed efficienza dei militari ed eroderne le manie imperiali. L’opinione pubblica, straordinariamente sensibile alle teorie del complotto – comunque gratificanti, perché convincono i turchi di essere importanti, altrimenti la superpotenza non macchinerebbe contro di loro – ne sente confortato il suo antiamericanismo. Ma di qui allo strappo con gli Stati Uniti e con la Nato, molto ne corre (carta 3). Semmai, si tratta di profittare della confusione a Washington per porre la prossima amministrazione di fronte a due irreversibili fatti compiuti: zone di controllo turche in Siria e in Iraq, teste di ponte della futura sfera d’influenza neo-ottomana.
Anche per questo Erdoğan ha cercato e trovato una sponda in Russia. Nel giro di pochi mesi, i rapporti fra Ankara e Mosca sono parsi trascorrere dal nadir (24 novembre 2015, abbattimento di un aereo russo scivolato dalla Siria nello spazio aereo turco) allo zenit (10 ottobre 2016, retrouvailles celebrate a İstanbul da Putin ed Erdoğan con recita da vecchi amiconi e firma di accordi a tutto campo, dall’energia al commercio, dal turismo alla cultura). Di strategico rilievo il progetto di un gasdotto destinato a portare gas russo alla Turchia attraverso il Mar Nero, salvo sfociare via Balcani nel mercato europeo. Per Mosca, questo Turkish Stream è destinato a completare l’aggiramento del buco nero ucraino, avviato con il Nord Stream, di cui ha annunciato il raddoppio d’intesa con la Germania. Per Ankara, rafforza il tentativo di affermarsi come hub gasiero al crocevia fra Russia, Medio Oriente, Levante ed Europa (carta a colori 7). Per Washington, segna un altro passo del gambero nella diuturna battaglia di interdizione contro l’interdipendenza energetica russo-europea. Perché i governi vanno e vengono, le alleanze sorgono e decadono, ma i tubi restano.
Più precario sembra il compromesso fra Erdoğan e Putin sulle partite levantine e mediorientali, troppo fluide per consentire strategie di medio periodo. Allo stato, il leader turco pare aver dato mano libera ai russi e al regime di Damasco per Aleppo, disimpegnandosi dai suoi esosi clienti locali, a cominciare dai qaidisti di al-Nuṣra (in parte riciclati come Fatḥ al-Šām), in cambio della rinuncia del Cremlino ad alimentare gli irredentismi curdo-siriani. Erdoğan si è spinto fino a proporre ai russi di partecipare alla gara per la costruzione del suo primo sistema di difesa anti-missili balistici.
Ogni intesa fra turchi e russi va presa con un grano di sale. La dimensione georeligiosa pesa: difensori dell’islam e protettori del cristianesimo ortodosso non si conciliano con facilità. Ma che nell’attuale guerra ibrida con la Russia gli Stati Uniti possano contare sull’alleato turco è escluso. La Turchia è autocentrata. L’assetto strategico è flessibile, ma sempre orientato ai propri interessi. Ankara non è più confitta in un compito predeterminato, affidatole da Oltreoceano. E i russi ne profittano.
Restiamo noi europei. La sera del 15 luglio molte cancellerie veterocontinentali hanno tifato per i golpisti. Il controgolpe erdoganiano sembra aver definitivamente cancellato il miraggio dell’integrazione della Turchia nell’Unione Europea, inattingibile come la tartaruga di Achille. Ma ha anche messo in questione la tenuta dell’accordo turco-tedesco, vestito da europeo, che impegna Erdoğan a impedire l’esodo dei «suoi» ospiti siriani verso le nostre sponde. In attesa che altri disperati siriani e iracheni, in fuga dai massacri di Aleppo o di Mosul, bussino alla porta turca o direttamente alla nostra, via Canale di Sicilia.
Nel 2023 il presidente sultano intende celebrare il centenario della repubblica quasi ne fosse il funerale di prima classe, avendo sancito il ritorno dell’impero sugli Stretti fatali, nel frattempo coronati da nuovissime, ardite infrastrutture (carta a colori 8). Pronto per presentarsi a rapporto dai suoi augusti predecessori ottomani – il più tardi possibile.

Tali sogni eccedono il formato del paese. E trascurano le lezioni della storia: gli imperi possono decomporsi in Stati nazionali, ma questi non ricompongono mai l’impero originario. Se non gestite con flessibilità, le pulsioni neo-ottomane produrranno il disastro. E forse un giorno gli storici stabiliranno che, per aver voluto restaurare il sultanato, Erdoğan avrà distrutto lo Stato inventato da Atatürk.
Note
1. Citato in LORD KINROSSAtatürk. The Rebirth of a Nation, London 1964, Weidenfeld and Nicholson, p. 47.
2. «Foreign Policy-Synopsis», Republic of Turkey, Ministry of Foreign Affairs – Turkish Embassy in Zagreb, zagreb.emb.mfa.gov.tr
3. Così SH. HAMID nella tavola rotonda della Brookings Institution, «Turkey after the Coup Attempt: Implications for Turkish Democracy, Foreign Policy, and the Future of the Syrian War», 20/7/2016, www.brookings.edu
4. I. KUTLUThe Life of Recep Tayyip Erdoan, p. 2, Amazon, s.d. s.l.
5. S. SERRA ERDOANOne Minute! Excerpts from Speeches Delivered by President Erdoan, iBoo, Lon- don 2015, p. 76.
6. Cit. in CH. DBELLAIGUE, «Welcome to Demokrasi: How Erdogan Got more Popular then ever», The Guardian, 30/8/2016.
7. Cfr. A. AIDINTAS ̧BAS ̧, «The Good, the Bad and the Gülenists», European Council on Foreign Rela- tions, 23/9/2016.
8. Cfr. M.A. REYNOLDS, «Damaging Democracy: The US, Fethullah Gülen, and Turkey’s Upheaval»,Eurasia Review, 27/9/2016.
9. «Erdoan Criticizes the Treaty of Lausanne, which Established the Borders of Turkey», Ria-Novosti, 29/9/2016.
10. A. DAVUTOLU, intervista al giornale turco Sabah, 12/4/2009, goo.gl/BqXmXp
11. B. BORA, «Analysis: What is Turkey Trying to Achieve in Iraq?», Aljazeera, 14/10/2016.
12. «Erdogan: Turkey “Will Be At Table” for Mosul Talks», Habertürk, 17/10/2016.
13. Ibidem.
14. A. KHALIDI, «Erdogan Invokes Document that Claims Mosul as Turkish Soil», Kurdistan24, 17/10/2016.
15. . ÇEVIK, «Iraq and Syria Is Our Back Garden», Daily Sabah, 4/10/2016.
16. Cfr. «Storia di Hatay» (in turco), antakyarehberi.com




giovedì 3 novembre 2016

A margine delle proteste di Aquilinia - IMMIGRATI E CHIESA: LA SVOLTA DEL PAPA:" ACCOGLIENZA CON PRUDENZA" - LA CHIESA RETTIFICA E CHIARISCE LE POSIZIONI - NO AL RAZZISMO MA ANCHE PRUDENZA E REALISMO.




Ad AQUILINIA vi è un crescendo di proteste per l' arrivo di alcuni immigrati che dovrebbero essere ospitati in alcune strutture di proprietà della Diocesi di Trieste (clicca QUI) già adibite ad asilo per i bambini, di cui si sente fortemente la mancanza, ed anche di polemiche che hanno coinvolto il Parroco (clicca QUI).

Questo offre lo spunto di esaminare con attenzione le posizioni prese da Papa Francesco in un' intervista pubblicata dal Corriere della Sera il 2 novembre (clicca QUI), resa durante il volo di ritorno dalla Svezia, e che ha dato modo all' autorevole quotidiano di titolare in prima pagina "SVOLTA DEL PAPA":
Affiancando un commento di Aldo Cazzullo che riprendende l' importante distinzione papale tra i "rifugiati" vittime di guerre che necessitano di asilo e i "migranti" economici il cui flusso deve invece essere regolato. 

Cazzullo parla anche di un flusso migratorio che alimenta direttamente ed indirettamente un mercato criminale.

Dice Papa Francesco: "Il migrante (economico ndr.) deve essere trattato con certe regole, migrare è un diritto ma un diritto molto regolato. Invece un rifugiato viene da una situazione di guerra, fame, angoscia terribile. ".

Dice anche : "Ma c’è anche la prudenza dei governanti che credo debbano essere molto aperti nel riceverli ma anche fare un calcolo di come poterli sistemare. Perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere ma lo si deve integrare. E se un Paese ha una capacità di integrazione faccia quanto può, se ha di più faccia di più, ma sempre con il cuore aperto. Non è umano chiudere le porte e il cuore, e alla lunga questo si paga, si paga politicamente, come anche una imprudenza nei calcoli, nel ricevere più di quelli che si possono integrare. Qual è il pericolo? Quando un rifugiato o un migrante non è integrato, si ghettizza, entra in un ghetto, e una cultura che non si sviluppa in un rapporto con un’altra cultura entra in conflitto, e questo è pericoloso.".

Sullo stesso numero del Corriere, nella sezione dedicata al Veneto troviamo un articolo in cui i prefetti sorprendentemente accusano i parroci di non aiutarli nella sistemazione dei migranti (clicca QUI e vedi anche la foto sotto).
Evidentemente nella Chiesa non c'è una posizione univoca di accoglienza a qualsiasi costo e contro la volontà della popolazione.

La posizione di Papa Francesco esprime un invito alla prudenza ed al realismo nell' accoglienza che va tenuto in grande considerazione anche dai "talebani" (religiosi o laici) dell' accoglienza ad oltranza sempre e comunque indipendentemente dalla situazione oggettiva e dalla volontà dei cittadini: anche a costo di creare bombe sociali, squilibrare il mercato del lavoro a danno dei residenti e suscitare "GUERRE TRA POVERI".

L' ultima legge di bilancio italiana ha specificato che nel 2015 sono stati spesi 3 miliardi e 300 milioni per l' accoglienza ai migranti, di cui solo una minima parte sono rifugiati da guerre: tenendo conto della disastrosa situazione del paese e dell' entità della cifra, che è una volta e mezza il costo dell' Assistenza Sanitaria per tutti i cittadini di una regione come il Friuli Venezia Giulia, è ragionevole continuare a consentire una immigrazione di massa di fatto senza regole?
A fronte di una sanità pubblica che subisce continui tagli per mancanza di fondi come altri servizi pubblici, ad una disoccupazione giovanile di oltre il 40%, a una disoccupazione complessiva più che doppia rispetto a quella della Germania, al lavoro a "voucher" che dilaga, ai negozi che chiudono: è gestibile una nuova massiccia immissione di forza lavoro (a basso costo) immigrata?


Anche la Chiesa, per bocca del Papa, introduce criteri di ragionevolezza, prudenza e realismo oltre all' ovvio e doveroso appello morale all' umanità e al rispetto reciproco.


Cliccando QUI un nostro precedente articolo sull' immigrazione.