RESTITUIRE TRIESTE AL FUTURO -

AUTONOMI DALL' ITALIA MA CONNESSI CON IL MONDO - RESTITUIRE TRIESTE ALLA MITTELEUROPA - RESTITUIRE TRIESTE AL SUO FUTURO: CENTRALE IN EUROPA INVECE CHE PERIFERICA IN ITALIA -

sabato 2 dicembre 2017

INTERVISTA AL SEGRETARIO GENERALE DELL' UNPO MARINO BUSDACHIN - Dell' Organizzazione delle Nazioni e dei Popoli Non Rappresentati (Unpo) fa parte, dal 28 novembre 2014, TRIEST NGO l'organizzazione non governativa pro-TLT con sede a Londra. Tale adesione ha reso possibili gli interventi presso l' ONU a Ginevra delle delegazioni triestine.


Da tre anni, dal 28 novembre 2014, Triest-NGO, l' organizzazione non governativa con sede a Londra che si occupa dei diritti dei cittadini de TLT, fa parte dell' UNPO-Organizzazione delle nazioni e dei popoli non rappresentati- che è guidata dal 2003 dal triestino Marino Busdachin.  Marino Busdachin è noto a Trieste anche per essere stato consigliere comunale per il Partito Radicale dal 1978 all' 1982.
E' stata l' ammissione all' UNPO che ha consentito la partecipazione di delegazioni di triestini ad  alcune sessioni di organismi ONU a Ginevra a perorare la causa dei cittadini del TLT. 
L' amicizia e la stima che lega dagli "anni triestini" alcuni nostri redattori a Marino rende ancora più gradita la pubblicazione di questa sua intervista.


L’autodeterminazione per liberarsi dalle oppressioni.
Dalla Catalogna al Kurdistan, due modi ben diversi di sentirsi oppressi. Il ruolo dell’Organizzazione dei popoli non riconosciuti

Intervista a Marino Busdachin, Segretario generale dell’UNPO.
di Guiomar Parada *

L’Art. 1, comma 2 della Carta delle Nazioni Unite indica come loro fine lo sviluppo di relazioni amichevoli tra le nazioni “fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-determinazione dei popoli”. Negli ultimi mesi, questo principio cardine del diritto internazionale moderno è tornato alla ribalta con il referendum in Catalogna, quello nel Kurdistan iracheno e altri previsti a Bougainville in Papua Nuova Guinea, nelle Isole Fær Øer e in Nuova Caledonia.
L’Organizzazione delle Nazioni e dei Popoli Non Rappresentati (Unpo) è composta da non più di 40 membri in tutto il mondo, tra Stati non riconosciuti, minoranze, popoli indigeni e territori occupati e ha come missione difendere i loro diritti politici, sociali e culturali, il loro ambiente e il loro diritto all’autodeterminazione (di seguito AD).
Fondata nel 1991 a L’Aia, contribuisce a mitigare i conflitti intra Stato, oggi il 90%. Marino Busdachin è Segretario generale dal 2003.
Lo abbiamo incontrato per gettare un po’ di luce su un tema di grande attualità ma poco noto all’opinione pubblica.


Come Unpo vi occupate di popoli molto differenti, da quelli originari del Sudamerica a identità dell’Europa, a Stati de facto e autonomie in Asia e Africa... Che cosa hanno in comune?

La mancanza dei fondamentali diritti umani e della libertà di espressione individuale e, rispetto al diritto all’AD dei popoli, la soppressione di quelli che oggi l’Onu definisce diritti collettivi.
 L’Auto Determinazione  qui deve essere intesa nel più largo spettro: dall’autonomia alle federazioni, dalla devoluzione di potere tramite autogoverni regionali all’integrazione all’interno di Stati e diverse altre soluzioni di cui l’indipendenza è l’ultimo passo e spesso non quello di maggiore successo.

Molti popoli si battono per il diritto all’AD senza prospettive di uno status migliore. A che punto siamo?


Le concessioni di autonomia in Africa e Asia sono spesso politiche e hanno durata limitata: può succedere che appena il governo cambia riprenda lo scontro armato, molte volte sostenuto da paesi vicini. Invece di migliorare, la situazione peggiora. La causa non sono i popoli o le minoranze che avanzano il principio dell’AD, ma spesso efferate forme di oppressione e negazione dei diritti individuali o collettivi di un popolo, di un gruppo o di una comunità.

Che cosa succede quando i popoli non rappresentati si trovano coinvolti in una guerra come in Siria?

È complicatissimo. La questione curda coinvolge la Siria, la Turchia, l’Iraq e l’Iran. La realizzazione di uno Stato curdo è negata politicamente dalla Russia di Putin, dalla Turchia di Erdoğan, dagli Stati Uniti e ora anche dall’Iran. Il referendum tenutosi nel Kurdistan iracheno riflette una situazione complessa – oltre a divisioni tra i Curdi e al fatto che non tutti ambiscono a creare un Kurdistan.
Un aspetto positivo è che i territori di due minoranze irachene – gli Assiri della piana di Ninive e i Turcomanni di Kirkuk – sarebbero annessi al Kurdistan. Per molti analisti la richiesta di un referendum ha più una valenza di politica interna tra i leader curdi Massoud Barzani e Jalal Talabani, ma a farne le spese saranno i Curdi siriani stretti tra la minaccia di un intervento militare turco e la mancanza di sostegno a qualsivoglia forma d’indipendenza da parte delle maggiori potenze presenti in loco.
 I processi, tuttavia, possono essere molteplici e anche in una situazione repressiva come quella iraniana, la richiesta di AD non si estrinseca solo nello schema dell’indipendenza. È il caso di quattro membri dell’Unpo che chiedono un Iran federalista e democratico. Sono gli Arabi ahwaz, i Curdi, gli Azerbaijani e i Beluci che insieme ad altri gruppi minoritari rappresentano più del 50% della popolazione del Paese.

Come si mantiene viva un’identità culturale?

Dipende se l’impulso verso l’AD sopravvive nella diaspora o all’interno di un paese. Nel corso degli anni ho visto affievolirsi le rivendicazioni di diversi membri dell’Unpo. Nella diaspora, dopo una o due generazioni si perde un po’ l’identità, aumenta l’integrazione e scompaiono le organizzazioni. La richiesta di autodeterminazione svanisce. È un processo alquanto frequente, soprattutto presso minoranze o popoli in territori non abbastanza grandi, ma lo vediamo anche nel caso del Tibet.
Le grandi speranze di 10-30 anni fa oggi sono in crisi, come ha sottolineato lo stesso Dalai Lama. Il Tibet oggi è molto differente da quello di 20-30 anni fa. Questo mette in crisi gli stessi Tibetani, che non chiedono più l’indipendenza ma un’autonomia che non si realizzerà mai perché le persone cambiano, l’identità culturale si perde, la lingua non viene più usata. Soprattutto nei regimi non democratici, il processo di assimilazione finisce per annichilire prima l’identità culturale, poi la lingua e infine anche la memoria delle minoranze, che anche quando si definiscono nazione, difatti sono solo minoranze. [Il Tibet è membro Unpo, mentre l’Estonia e la Lettonia sono tra gli ex membri ora indipendenti e membri dell’Onu].

Secondo una ricerca dell’Università del Maryland e del Peach Research Institute di Oslo la spinta verso l’AD viene stimolata dalle rivendicazioni in corso in altri Paesi.

Il desiderio di emulazione è ciclico nella storia degli ultimi 50-60 anni, dall’infelice decolonizzazione al crollo dell’Urss con richieste di AD di tipo tradizionale e nazionalista tese alla creazione di Stati nazionali, quindi una versione un po’ ottocentesca del diritto all’AD. Oggi assistiamo a un fenomeno nuovo. Eravamo abituati a vedere la domanda di AD prevalere in Asia e invece cresce in Europa, dalla Spagna allo stesso Regno Unito, con qualche fenomeno negli Usa, quindi nei paesi più avanzati. Sono processi molto differenti da quelli nell’America Latina, dove a chiedere l’AD sono soprattutto i popoli indigeni, o in Africa, e in parte in Asia, che riguardano il modo arbitrario con cui sono stati tracciati i confini. In questi continenti vi sono decine di casi in cui Stati nascenti si sono appropriati di altri territori senza rispettare il diritto internazionale o le regole dettate dall’Onu, annessioni che per convenienza sono state accettate. Le richieste di AD in questi casi sono il risultato di appropriazioni o visioni artefatte, la frontiera tra India e Pakistan, che ai tempi dell’accordo di Teheran tra Roosevelt e Churchill fu tracciata sul tovagliolo di un ristorante. È inevitabile che dopo un numero di anni queste istanze si affermino tra una popolazione sempre più vasta.

Entità sovranazionali come l’Europa sembrano far scattare nei popoli il bisogno di ribadire la propria identità.

Nel caso europeo è un fenomeno quasi ciclico. È normale che quando le cose cambiano e non si vedono sviluppi positivi, le persone si rivolgano ai principi identitari, che hanno i limiti che abbiamo conosciuto negli ultimi secoli. Ciò è compensato, però, dalla crescita di un’identità europea soprattutto tra le nuove generazioni.
 Elemento interessante è la Catalogna, che vuole uscire dalla Spagna ma entrare in Europa. Il fatto che il loro processo comporti una visione degli Stati Uniti d’Europa rende più difficile definire il loro un indipendentismo sterile e separatista.
La prospettiva di una federazione europea regolata potrebbe risolvere, oltre al caso della Catalogna, forse anche quello della Scozia, o del Tirolo o di altre situazioni europee finora senza soluzione.
Sarebbe sbagliato quindi collegare istanze come quella catalana a impostazioni di tipo nazionalistico indipendentista del secolo scorso. Da moltissimi anni la Catalogna chiede uno status paritario o un’autonomia reale simile a quella dei Paesi Baschi, sempre negata dalla posizione centralista del governo spagnolo. Questa rigidità ha alimentato la richiesta d’indipendenza e quindi si può ritenere il governo spagnolo complice della situazione attuale.
Il principio di essere padrone a casa propria poteva valere nel Medioevo.
In un mondo interdipendente come quello di oggi, quelle forme sono spettri del passato.
Ritengo che invece di vedere le spinte verso l’AD come separatismo o accusare le minoranze di voler rompere la sacralità dei confini di uno Stato, si dovrebbe tentare di arrivare a migliori relazioni nell’ambito delle organizzazioni internazionali.
Che la Scozia o la Catalogna facciano parte di un’Europa a più di 28 Stati o siano una “dépendance” di uno Stato nazionale, non credo faccia molta differenza.
Vedrei questi fenomeni, paradossalmente, come effetti della prospettiva di un’effettiva Unione europea.

Come risponde alla critica che si rischia di tornare al passato, e cioè a un’Europa di piccoli regni  e staterelli?


La cosiddetta “Europa dei piccoli Stati” è in contrasto con l’idea stessa di Unione europea.
Le forze politiche autonomiste riflettono spesso confitti di politica interna nazionale più che vere e proprie aspirazioni di gruppi di cittadini: finora, purtroppo, la Ue non è stata capace di contrastare e ricomporre questi conflitti in un’Unione autentica e completa.

Sussiste tuttavia la preoccupazione che il perseguimento di AD si sovrapponga a forme nazionalistiche o addirittura a odio razziale o divisioni etniche…

Esasperandone i termini, anche tramite un certo tipo di giornalismo che equipara l’AD al separatismo, per esempio, si acuiscono le polarizzazioni e si fa il gioco dei nazionalismi e dei populismi. Ciò può tracciare delle vie sbagliate all’AD con derive nazionalistiche, violente e autoritarie. Il mondo dei popoli che chiedono l’AD non ne è immune. Lottare per l’AD non è di per sé un valore positivo e quindi noi siamo molto attenti che le organizzazioni che aderiscono all’Unpo utilizzino metodi strettamente non violenti. Il nostro compito è dare una voce, ma la nostra attività si svolge nei Parlamenti, nel Consiglio Onu sui Diritti Umani e quindi principalmente in ambito istituzionale. Occorre un impegno per regolare il diritto all’AD con elementi di diritto internazionale evitando così che l’AD resti solo una buona idea nella Carta dell’Onu o addirittura territorio selvaggio di criminali senza alcuna legge se non quella del più forte. Viceversa, c’è anche una lunga lista di Stati che, in totale mancanza di diritti umani e democrazia, si sentono autorizzati a tutto, finendo per assomigliare più a organizzazioni criminali che a realtà statali, come l’Etiopia. Oggi assistiamo a cambiamenti che potremmo definire epocali ma che non sono politici bensì economici, militari e della sicurezza. La globalizzazione politica non è ancora iniziata, ma se ve ne fosse una parvenza, gli Stati negozierebbero invece di agire come disturbatori in situazioni che non sono né moderne né contemporanee. Si pensi all’occupazione della Crimea da parte della Russia, all’occupazione economica cinese del territorio degli uiguri...

Come si approda a un impegno per l’AD dei popoli dalla lotta per i diritti civili e da un intenso lavoro per la creazione del Tribunale penale internazionale?

Posso dire di avere l’approccio più freddo possibile al diritto all’AD, nel senso che ritengo necessario capirne i limiti. Ci sono arrivato perché ritengo l’AD un possibile punto di forza per risolvere problemi esistenti, in molti casi disegnando dimensioni sovranazionali.
In questo la nascita dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa è stata di grande aiuto.
La vita di organizzazioni come l’Unpo non è facile perché i membri sono molto diversi e parecchi sono in Stati autoritari, non democratici e irrispettosi dei diritti umani. Per questo credo che sia importante fare l’avvocato del dialogo, perché l’autodeterminazione, una volta regolata, sarebbe un potente strumento per migliorare la democrazia, lo Stato di diritto e il rispetto dei diritti umani ovunque nel mondo.

*Guiomar Parada [ROMA] scrive per Il Sole 24 Ore e L’Espresso, e si interessa della convergenza tra economia e politica.
Pubblicato su EastWest 12/2017






giovedì 30 novembre 2017

WE HAVE A DREAM - Intuizioni a margine della conferenza di Parag Khanna



Abbiamo un sogno....
La conferenza di Parag Khanna dell'altro ieri ci ha suggerito un bel sogno: Trieste città stato portuale come Singapore o Amburgo che è una città-stato autonoma federata alla Germania: AUTONOMI DALL' ITALIA MA CONNESSI CON IL MONDO. 
Una info - città - stato efficiente come la Svizzera, cui manca il 27° Cantone confederale autonomo con accesso al mare, o come la Germania cui manca il 17° Land federale autonomo sul Mediterraneo...

Lo sviluppo delle forze produttive e le "utopie realizzabili" sono il motore della storia.
Ora è il momento di sviluppare le forze produttive e sviluppare le connessioni internazionali di un territorio rimasto isolato per 100 anni.






ANCHE BREMA, CITTA' STATO FEDERATA ALLA GERMANIA, HA LA BANDIERA ROSSA E BIANCA !


domenica 26 novembre 2017

AUTONOMIA - CORTINA VUOLE ANDARE NELLA PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO - CHIAMALI FESSI ! - HANNO BISOGNO DI UNO SBOCCO AL MARE? SIAMO QUI ! - CON LE SPINTE AUTONOMISTICHE IN VENETO E NEI TERRITORI DELL' EX- IMPERO TRIESTE RISCHIA DI DIVENTARE ENCLAVE PER CONGRESSI DI NAZIONALISTI FASCISTOIDI - TRIESTE PROVINCIA AUTONOMA CHE TRATTIENE TUTTE LE TASSE !



Dopo il trasferimento di Sappada in Friuli-Venezia Giulia - con probabile marcia indietro se il Veneto  otterrà tutte le autonomie e i benefici fiscali richiesti dopo il referendum - anche Cortina chiede l' annessione alla Provincia Autonoma di Bolzano che ha livelli di autonomia e benefici fiscali tali da farne un territorio "quasi indipendente" (clicca QUI).

 A Trieste invece i politici nostrani, abituati a succhiare le mammelle della lupa romana e a vendere specchietti e collanine agli indigeni (attività detta "marketing politico"), sono contenti così: vogliono farne un enclave "italianissima" circondata da territori con elevate autonomie e autogoverno.

A Trieste lasciano venire a fare la loro adunata nazionale i missini riciclati e neofascisti di "Fratelli d' Italia" che a Bolzano non osano mettere piede, perchè sarebbero cacciati dagli Schützen a schioppettate a sale grosso nel deretano, e parlano di "Via Almirante" in Consiglio e Giunta Comunale: un manicomio che Trieste si è cercata eleggendo questa gente.
Mentre quelli di Cortina, che non sono fessi come i nostri, pensano ai vantaggi economici dell' autonomia bolzanina.

Cosa vorrebbe dire trattenere sul nostro territorio le tasse, compreso quelle generate dal Porto Franco Internazionale, lo abbiamo già spiegato QUI e QUI.


Ma si sa che i politici triestini pensano ad altro: dagli addobbi natalizi alle spiagge di sabbia a Barcola, passando per l' incapacità di organizzate anche solo una banale festa per il varo di una nave: un festival di incapacità e mancanza di visione strategica.

Perfino a Gorizia lavorano alla costituzione di una Zona Franca (clicca QUI) e vogliono fare di Cervignano il retroporto di Trieste (vedi nota*) mentre qui, malgrado la mancanza di aree, gongolano per i vincoli archittettonici  totali che hanno provocato 20 anni di immobilismo su un area di 70 ettari servita da ferrovia, banchine e Punto Franco costiero (Porto Vecchio).

Eppure siamo convinti che che Trieste dovrebbe mettersi sulla scia delle modifiche autonomistiche avviate dal Veneto: ne avrebbe tutto da guadagnare.


E che tutti i territori già dell' Impero dovrebbero godere di speciali autonomie, analoghe e maggiori di quelle della Provincia Autonoma di Bolzano.


Tanto più che per governare un territorio circostante un Porto Franco Internazionale è necessaria un' efficienza e velocità che la burocrazia borbonica italiana, e quella regional-udinese, non consentono.
Vedi l' esempio degli ostacoli che il SIN, sito inquinato nazionale, di Zona Industriale e i demenziali vincoli architettonici ministeriali in Porto Vecchio pongono all' utilizzo produttivo dei Punti Franchi che finalmente è avviato.

Se Trieste non ottiene rapidamente una ampia autonomia lo sviluppo economico legato al rilancio del Porto Franco Internazionale e dall' utilizzo produttivo dei Punti Franchi rischia di essere soffocato nella culla dalle mefitiche burocrazia, tasse e politica italiane.

Nota *: "Debora Serracchiani ha affermato: «In questi anni abbiamo lavorato per rafforzare le potenzialità dell’interporto e soprattutto per creare un collegamento con Trieste: l'obiettivo è di fare di Cervignano il retroporto dello scalo triestino" Il Piccolo 26/11 pag. 17 .